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The Guffanti Protocol

What guidelines do we follow in our daily work at Guffanti? What parameters do we try to respect in the research, selection, care, breeding and proposal of a cheese? How do we choose the cheeses that we will raise in the cellars of Arona? Following a few but fundamental rules that we have experimented and implemented over time and that we have identified as THE GUFFANTI PROTOCOL.     The research, starting point for a “CHEESE BREEDING” to follow and accompany until the organoleptic maturity of the product, begins by following some parameters that the company has set: raw milk from free-grazing animals fed without straining; production techniques for which the manual skills and uniqueness of the single cheese is preferred; the necessary time, without haste and hurry and without impositions, for the correct maturation and evolution of the cheese.     Some other convictions that are added to this, in order to guide us in our daily work: an excellent cheese comes from an excellent milk an excellent milk comes from healthy animals that feed themselves spontaneously if the animals are healthy (and serene), they are happy we want to spread the culture of the excellent COGULATED MILK, that means excellent CHEESE, because it has been produced by happy animals   Download the presentation of Guffanti Protocol: Protocollo Guffanti (PDF)    

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L'alpeggio
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L’alpeggio

Chi oggi volesse procurarsi del vino pigiato con i piedi o del pane fatto con le castagne e lievitato con un po’ di farina fermentata avrebbe non pochi problemi da risolvere: più di quelli che deve affrontare chi sia curioso di assaggiare un formaggio prodotto con le stesse tecniche di centinaia di anni fa, quale è a tutti gli effetti quello di alpeggio.   Il «caricamento» dei pascoli montani, detto anche «transumanza» nel centro-sud dell’Italia, è nato dall’esigenza di salire verso quote più alte e più fresche quando la primavera cede il passo all’estate, e i prati a valle cominciano a risentire degli effetti della calura. Sconosciuto, sembra, agli antichi, almeno per quanto riguarda l’alta montagna, comincia a essere documentato solo verso l’anno Mille, quando l’aumento della popolazione spinse a cercare nuovi metodi di sfruttamento del territorio. Un simile viaggio verso l’alto è tanto consono ai ritmi naturali da fare entrare le mandrie e le greggi in uno stato di euforia quando queste si rendono conto, verso la metà o la fine di giugno, che è giunto il momento della partenza per l’alpeggio, e i loro pastori faticano a trattenerle non appena hanno intrapreso la strada per la montagna. L’alpeggio si svolge in due tappe: dapprima si compie una sosta a 1300-1800 metri, per poi salire oltre i duemila ad agosto, quando la breve estate alpina permette all’erba di giungere al suo pieno sviluppo anche a quell’altezza. Alla fine del mese ci si deve portare di nuovo sotto i duemila per l’incombente pericolo di nevicate precoci, mentre dopo la metà di settembre l’alpeggio termina con il rientro alle stalle di partenza. La gestione di quest’attività è ancora oggi strettamente familiare: poche persone provvedono a mandrie che, nel caso in cui siano composte da vacche, superano raramente gli ottanta capi. Anche gli edifici dell’alpeggio sono ridotti all’essenziale: un piccolo locale per la lavorazione del latte (il piano superiore o il sottotetto fungono da abitazione per i pastori-casari) e una stalla che può ospitare pochi animali. Il grosso della mandria dorme all’aperto, dove la temperatura non si abbassa comunque mai sotto lo zero.   La vita di alpeggio è dura: sveglia alle quattro del mattino e prima mungitura, dopo la quale la mandria viene condotta nei pascoli, dove resterà fino al primo pomeriggio, quando si dovrà radunarla per la seconda mungitura, che avviene verso le cinque. Quando è possibile effettuare la refrigerazione, il latte munto alla sera è lasciato riposare per unirlo poi a quello del mattino successivo: un’operazione che ne incrementa la carica batterica naturale, andando quindi ad arricchire ulteriormente gusti e profumi del formaggio. Normalmente si effettuano due distinte caseificazioni, una alla mattina ed una seconda alla sera. Grazie alla eccellente caratura del latte di alpeggio talvolta si riesce a produrre un ottimo burro ed una ricotta molto gustosa. Una ulteriore particolarità è data dal fatto che quando il latte è scremato per produrre burro, invece di tome a latte intero si ottengono tome semigrasse. Tali fattori caratterizzano la ricca varietà delle produzioni estive di alpeggio. Mescolati i due latti si procede alla cagliatura e alla preparazione delle forme. Una mandria di una settantina di vacche permette la produzione di circa settanta chili di formaggio al giorno (da ogni capo di bestiame in alpeggio si ottengono giornalmente circa 10 litri di latte, contro i 40-50 di una vacca allevata in pianura nel chiuso di una stalla). Le tecniche di caseificazione sono, come si è detto, le stesse del passato, anche perché oltre i duemila metri di quota si può trasportare ben poco delle tecnologie moderne: non è insolito vedere nelle baite di alpeggio attrezzi che hanno più di un secolo di vita. Portarne altri dal fondovalle sarebbe una fatica non trascurabile, e inutile finché i vecchi, indistruttibili arnesi continuano a fare il loro dovere. Per condurre a valle le forme prodotte il mezzo tradizionale è il dorso di asino o di mulo, che può reggere tranquillamente un peso di un quintale. Capita però che oggi ci si serva dell’elicottero, nonostante i costi che questo mezzo comporta: il valore commerciale del formaggio di alpeggio ormai lo giustifica ampiamente, e in questo modo le forme subiscono minori shock fisici e termici. Gli appassionati delle passeggiate in alta quota sanno quanto sia facile imbattersi in alpeggi abbandonati o in rovina, mentre è sempre più raro incontrare una mandria o un gregge al pascolo, nonostante negli ultimi anni sia rinato interesse anche nei giovani verso un recupero di questo modo di vivere la montagna. Nella grandi vallate alpine in cui esista una forte tradizione in tal senso oggi gli alpigiani non sono comunque mai più di poche decine.    

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Doc e Dop
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Doc e Dop

A partire dall’ultimo dopoguerra molte nazioni europee hanno introdotto normative per tutelare dalle contraffazioni e dalle imitazioni i propri prodotti alimentari tradizionali. In Italia nel settore caseario le prime Denominazioni di origine controllata (Doc) furono assegnate nel 1955 in base a una legge elaborata l’anno precedente (n. 125/54), prima ancora che una normativa analoga fosse studiata per i vini. Ma già nel 1951 la Conferenza di Stresa, con un documento firmato da otto nazioni europee, tra cui l’Italia, aveva riconosciuto l’esistenza delle denominazioni di origine. La Doc prevedeva la produzione solo all’interno di un territorio ben delimitato secondo tecniche stabilite da una normativa detta «disciplinare» (ovviamente deve trattarsi di tecniche che appartengano alla storia di quel formaggio e di quel territorio). A metà degli anni Novanta I’Unione europea ha reso operativa la Denominazione di origine protetta (Dop), approvata nel 1992 e studiata anch’essa per tutelare i prodotti tradizionali la cui lavorazione sia interamente effettuata all’interno di un comprensorio specifico (non per nulla la denominazione contiene in genere un’indicazione geografica). La Dop, estesa non solo all’Unione europea ma anche ai paesi che hanno stretto accordi commerciali con essa, ha sostituito la vecchia Doc. La Dop è stata finora assegnata (ma il numero è in continua evoluzione) a 47 formaggi italiani, trasformando in Dop le Doc precedenti al 1996: dopo questa data è direttamente assegnata come Dop. Per maggiori informazioni sui formaggi italiani DOP: https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/7469    

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