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L'alpeggio
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L’alpeggio

Chi oggi volesse procurarsi del vino pigiato con i piedi o del pane fatto con le castagne e lievitato con un po’ di farina fermentata avrebbe non pochi problemi da risolvere: più di quelli che deve affrontare chi sia curioso di assaggiare un formaggio prodotto con le stesse tecniche di centinaia di anni fa, quale è a tutti gli effetti quello di alpeggio.   Il «caricamento» dei pascoli montani, detto anche «transumanza» nel centro-sud dell’Italia, è nato dall’esigenza di salire verso quote più alte e più fresche quando la primavera cede il passo all’estate, e i prati a valle cominciano a risentire degli effetti della calura. Sconosciuto, sembra, agli antichi, almeno per quanto riguarda l’alta montagna, comincia a essere documentato solo verso l’anno Mille, quando l’aumento della popolazione spinse a cercare nuovi metodi di sfruttamento del territorio. Un simile viaggio verso l’alto è tanto consono ai ritmi naturali da fare entrare le mandrie e le greggi in uno stato di euforia quando queste si rendono conto, verso la metà o la fine di giugno, che è giunto il momento della partenza per l’alpeggio, e i loro pastori faticano a trattenerle non appena hanno intrapreso la strada per la montagna. L’alpeggio si svolge in due tappe: dapprima si compie una sosta a 1300-1800 metri, per poi salire oltre i duemila ad agosto, quando la breve estate alpina permette all’erba di giungere al suo pieno sviluppo anche a quell’altezza. Alla fine del mese ci si deve portare di nuovo sotto i duemila per l’incombente pericolo di nevicate precoci, mentre dopo la metà di settembre l’alpeggio termina con il rientro alle stalle di partenza. La gestione di quest’attività è ancora oggi strettamente familiare: poche persone provvedono a mandrie che, nel caso in cui siano composte da vacche, superano raramente gli ottanta capi. Anche gli edifici dell’alpeggio sono ridotti all’essenziale: un piccolo locale per la lavorazione del latte (il piano superiore o il sottotetto fungono da abitazione per i pastori-casari) e una stalla che può ospitare pochi animali. Il grosso della mandria dorme all’aperto, dove la temperatura non si abbassa comunque mai sotto lo zero.   La vita di alpeggio è dura: sveglia alle quattro del mattino e prima mungitura, dopo la quale la mandria viene condotta nei pascoli, dove resterà fino al primo pomeriggio, quando si dovrà radunarla per la seconda mungitura, che avviene verso le cinque. Quando è possibile effettuare la refrigerazione, il latte munto alla sera è lasciato riposare per unirlo poi a quello del mattino successivo: un’operazione che ne incrementa la carica batterica naturale, andando quindi ad arricchire ulteriormente gusti e profumi del formaggio. Normalmente si effettuano due distinte caseificazioni, una alla mattina ed una seconda alla sera. Grazie alla eccellente caratura del latte di alpeggio talvolta si riesce a produrre un ottimo burro ed una ricotta molto gustosa. Una ulteriore particolarità è data dal fatto che quando il latte è scremato per produrre burro, invece di tome a latte intero si ottengono tome semigrasse. Tali fattori caratterizzano la ricca varietà delle produzioni estive di alpeggio. Mescolati i due latti si procede alla cagliatura e alla preparazione delle forme. Una mandria di una settantina di vacche permette la produzione di circa settanta chili di formaggio al giorno (da ogni capo di bestiame in alpeggio si ottengono giornalmente circa 10 litri di latte, contro i 40-50 di una vacca allevata in pianura nel chiuso di una stalla). Le tecniche di caseificazione sono, come si è detto, le stesse del passato, anche perché oltre i duemila metri di quota si può trasportare ben poco delle tecnologie moderne: non è insolito vedere nelle baite di alpeggio attrezzi che hanno più di un secolo di vita. Portarne altri dal fondovalle sarebbe una fatica non trascurabile, e inutile finché i vecchi, indistruttibili arnesi continuano a fare il loro dovere. Per condurre a valle le forme prodotte il mezzo tradizionale è il dorso di asino o di mulo, che può reggere tranquillamente un peso di un quintale. Capita però che oggi ci si serva dell’elicottero, nonostante i costi che questo mezzo comporta: il valore commerciale del formaggio di alpeggio ormai lo giustifica ampiamente, e in questo modo le forme subiscono minori shock fisici e termici. Gli appassionati delle passeggiate in alta quota sanno quanto sia facile imbattersi in alpeggi abbandonati o in rovina, mentre è sempre più raro incontrare una mandria o un gregge al pascolo, nonostante negli ultimi anni sia rinato interesse anche nei giovani verso un recupero di questo modo di vivere la montagna. Nella grandi vallate alpine in cui esista una forte tradizione in tal senso oggi gli alpigiani non sono comunque mai più di poche decine.    

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"BuonaSorte" Guffanti (+24 mesi)
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“BuonaSorte” Guffanti (+24 mesi)

Quando l’uomo ha scoperto il modo di conservare il latte (coagulandolo) la Storia ha preso un indirizzo preciso. Tra i formaggi storici, un posto d’onore è riservato a quelli caratterizzati dalla struttura granulare della pasta che si presta, più che al taglio, alla frattura in ghiotte scaglie e alla grattugia. Formaggi sontuosi, rispettosi del ciclo delle due mungiture giornaliere - quella della sera e quella del mattino - ottenuti unendo i due latti che hanno obbligatoriamente timbri diversi, diffusi là dove il pascolo permette di ottenere importanti quantità quotidiane di latte vaccino. Quindi formaggi di aree orografiche ben precise della pianura Padana e frutto di lavorazioni rigorose per produzioni di valorizzazione del latte di partenza. Il Formaggio BuonaSorte Guffanti ne è un esempio, erede di una solida e riconosciuta tradizione dell’area Lodigiana a cui si vuol dare testimonianza, in modo adeguato ed in ossequio ai dettami tecnico/sanitari aggiornati. Quindi un formaggio che non fa più la goccia, perché oggi viene pressato per non lasciar troppi residui di siero. Un formaggio che non ha più nel colore della pasta note e sfumature verdognole perché oggi il riposo del latte della sera da scremare non può avvenire in bacinelle di rame non stagnate. E non ha neppure la crosta nera, non potendo più questa essere trattata, per la protezione durante l’allevamento, con la manteca che si usava composta da nero fumo, olio di lino cotto e farina di riso. Ma pur sempre un grande formaggio: a crosta dura al naturale e compatta, a proteggere la pasta gialla dorata interna, di lenta maturazione, granulosa e soffice al tempo stesso, profumatissima, di sapore aromatico di forte personalità, di grande conservabilità perché capace di mantenere le sue caratteristiche inalterate per lungo tempo. La scelta di Guffanti per valorizzare questo formaggio è caduta su un produttore della zona bassa del fiume Adda che lavora latte di animali alimentati con foraggio proveniente esclusivamente da quella zona. E tra le abitudini rimaste inalterate c’è il gergo dei cascinai che hanno sempre denominato le loro partite di formaggio con il termine “sorte” per alludere al fatto evidente che potevano esserci partite meglio o peggio riuscite per cause anche dovute al caso. Da qui l’idea del formaggio BuonaSorte per le partite dall’esito ottimo. La versione speciale studiata da Guffanti prevede rigorosamente l'impiego di latte crudo. Particolare importante: non viene utilizzato lisozima. Buon formaggio BuonaSorte Guffanti!!!

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Varietà sommerse

Un’affermazione che talvolta lascia stupito il profano è quella che in Italia (o in Francia) esistano più di cinquecento o anche mille specie di formaggi. In realtà non si tratta di una boutade, anche se andrebbe perlomeno specificato che esistono modi diversi di eseguire la conta, e che a seconda di quello utilizzato il totale può variare di molto. Per esempio l’Asiago è di norma ritenuto un unico formaggio, insignito come tale della denominazione di origine. Ma scendendo più in dettaglio ci si accorgerà che ne esistono due tipologie differenti, quello fresco e quello stagionato, che date le loro caratteristiche si potrebbero considerare tranquillamente due formaggi diversi. A sua volta si potrebbe suddividere l’Asiago stagionato in mezzano e stravecchio, che anzi qualcuno, non senza un minimo di ragione, separa come due entità a sé stanti: un’ulteriore distinzione sarebbe quella fra Asiago di latteria e Asiago di malga, ma ci si potrebbe perfino spingere a identificare l’Asiago di «quella» particolare malga. Insomma, a seconda del livello di precisione che si intende adottare ci si troverà a fare i conti con uno o con almeno quattro o cinque formaggi. In Italia la tendenza a raggruppare lavorazioni in parte differenti sotto un’unica denominazione ha in effetti creato una serie di varietà più o meno sommerse (si pensi solo al Gorgonzola Dolce o Piccante, alla vasta gamma dei Latteria Friulani o ai Pecorini che hanno formati, tempi di stagionatura e sottodenominazioni estremamente variabili). Questa circostanza, unita ad altra fattori, come l’esistenza di un discreto numero di produzioni sostanzialmente estinte ma ancora vive nel ricordo, crea disomogeneità anche forti fra «elenchi» di formaggi italiani elaborati secondo criteri diversi. Il che spiega perché dare numeri esatti sia piuttosto difficile.

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